Tav: Ragioni e principi

 

di Giovanni Cesareo

 

 

L’etica è di moda, oggigiorno. E altrettanto lo sono le questioni di principio. 

Piuttosto trascurata, invece, è l’arte del ragionamento, purtroppo.

 

In queste settimane, prendendo spunto dalla opposizione degli abitanti della Val di Susa alla Tav, si parte, appunto, con l’etica e le considerazioni di principio. E si sentenzia: l’interesse nazionale non può essere prevaricato dai localismi, l’interesse collettivo deve prevalere sul particolare. Mentre i membri del governo pronunciano spicce dichiarazioni («Si mettano il cuore in pace, la Tav si farà» afferma Lunardi, «Non sanno capire la modernità» si infervora Giovanardi) e la polizia provvede a «sgombrare il campo», editorialisti e commentatori si danno volentieri alle asserzioni storiche e di costume. Affermano: in questo paese non si è mai affermato il necessario senso di responsabilità. Accomunando Val di Susa, Scanzano, Acerra e quant’altro, lamentano: ciascuno tende a scaricare sugli altri ciò che non gli fa comodo e non vuole in casa propria. Ciascuno bada soltanto ai propri meschini interessi. Bisogna finirla.

 

Bene. Ma se provassimo più modestamente a riflettere e a ragionare per qualche momento? Intanto: come si fa, da una parte, a sostenere nei fatti l’individualismo (ciascuno «si faccia gli affari suoi»), a esaltare la «competizione» (come prevaricazione dell’uno sugli altri), a praticare la difesa degli interessi «ad personam» (per legge), e, dall’altra parte, ad asserire improvvisamente che l’«interesse collettivo» deve prevalere sul «particolare»? Non si può dire (e fare) tutto e il contrario di tutto: proprio questo è contro la morale, no? Ma poi. Chi e come stabilisce quale sia l’«interesse collettivo»? Se un’impresa licenzia centinaia di dipendenti perché ai proprietari conviene spostare la produzione dove costa meno, si può dire che ha prevalso l’«interesse collettivo»? E se si vara un ordinamento costituzionale che instaura differenze profonde tra le regioni, si può far finta che non abbia prevalso il «localismo»? E come mai, invece, ci si mettono anni a intravedere che forse ha ragione chi sostiene che soltanto sull’ascolto e sulla partecipazione può fondarsi l’autentico interesse collettivo? E non sarebbe il caso che le «autorità» spendessero qualche minuto a riflettere su quale possa essere il significato autentico dell’abusato termine «sviluppo»? E ancora. Esistono o no i diritti inviolabili della persona; esistono o no condizioni «in loco» da considerarsi assolutamente insopportabili? Imporre a una comunità «locale» di vivere per vent’anni in un cantiere aperto – a parte ogni altro possibile rischio – è legittimo, qualunque sia l’«interesse generale» che si intende affermare? Oppure è più «etico» cercare soluzioni alternative? Mettere in pericolo la salute di una popolazione «locale» per sistemare i rifiuti della «collettività nazionale» è lecito? O sarebbe più «responsabile» cercare innanzitutto di diminuire drasticamente la produzione di rifiuti?

 

Prima di appellarsi all’etica e ai principii, sarebbe più ragionevole e anche «morale» analizzare seriamente i fatti e le condizioni concrete nelle quali si intende operare. E le conseguenze che possono derivarne, soprattutto per chi è chiamato a subirle.

 

il manifesto, 17 dicembre 2005

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