Caduto l’ultimo diaframma di roccia: la parte degli scavi è finita
Sotto le gallerie tra Bologna e Firenze per la prima volta in jeep
Nei tunnel dove il treno
correrà a trecento all’ora
dal nostro inviato PAOLO RUMIZ
Operai nella galleria della linea ad Alta velocità
PASSO DELLA RATICOSA – Tonfi, gocciolio, una manica a vento che ansima nel buio, pompa aria oltre un sipario di plastica dove la galleria si restringe, diventa un budello percorribile solo a piedi. In fondo, illuminati da spot, uomini in tuta arancione puntellano una frana nella pancia della montagna. Sembrano archeologi attorno a una mummia egizia: si muovono in punta dei piedi nella polvere, ficcano con cautela spilloni nella pietra marcia. Formano un ventaglio di aste a raggiera; un’istrice quasi, per compattare il fronte prima che arrivi la mantide d’acciaio. La bestia a tre braccia detta "Jumbo", pronta alla trapanata finale.
Cinquecento metri sotto il passo della Raticosa, tra Firenze e Bologna, si allarga l’ultimo diaframma, il punto più stretto della direttissima che nel 2008 sparerà treni in due ore e tre quarti tra Roma e Milano. Settantotto chilometri, di cui 73 in galleria, su un fronte di scavo di 140 metri quadrati, vasto come un appartamento. Li abbiamo percorsi per la prima volta al completo, su mezzi fuoristrada. Dieci ore di viaggio al buio, con appena sei finestre sull’Appennino, sei lampi di luce su foreste, abbazie, torrenti e vecchie stazioni di posta. Un capolavoro italiano.
Vai in immersione sotto Sesto Fiorentino tra due pareti a piombo di 40 metri, una lunghissima navata che compie un curvone da autodromo e sbatte contro l’imbocco della galleria vera. Il confine è una soglia sacra, segnato dalla statua di Santa Barbara, patrona dei minatori, sigillata in una cripta sotto vetro. Poi vai tra pozzanghere, caterpillar e tappeti mobili che portano pietrisco, sotto una manica a vento che tuona, pompa aria fino a 70 metri al secondo. Nello stomaco della balena, i figli di un’Italia minore. Abruzzo, Carnia, Calabria, Gargano, Valtellina. Paesi di nome Pagliarelle, Lauria, Capistrello.
C’è la meglio gioventù qua sotto. Umberto Cardu dirige i lavori sul fronte Sud. Ha 33 anni, ma altri sono più giovani di lui. La gerarchia non nasce dall’età, i galloni te li conquisti ogni giorno sul campo. Cardu ha costruito l’imbocco di Sesto Fiorentino, un centro di 60 mila abitanti, sotto un dedalo di strade, reti idriche, perfino tombe etrusche. Ha affrontato mille riunioni con gente in allarme, risolto rogne da sovraffollamento, traffico, scompensi nelle falde d’acqua. "La ricerca del consenso – spiega – deve essere cercata prima, altrimenti il cantiere si ferma e il costo sarebbe insopportabile, con una macchina così colossale".
Sotto il Giogo della Scarperia, la prima montagna, quella che separa Firenze dalla conca del Mugello. Diciotto chilometri scavati in una successione di lastre verticali di roccia fratturata e fradicia d’acqua. Uno scavo in stato di allerta, con la volta inchiavardata da costole di ferro. Un giorno è esplosa una cascata, un getto da 400 litri al secondo a tredici atmosfere. Impossibile tamponare, si stava riempiendo tutto fino all’ingresso Sud. "Oggi ci ridiamo su – racconta Cardu – ma è stata una bolgia. Abbiamo lavorato da palombari. Pompato fuori tutto da una galleria laterale. E in tre giorni s’è risolta l’emergenza".
C’è poco in Europa che regga al confronto. Il tunnel della Manica era come bucare il burro. La galleria in costruzione nel Gottardo passa sotto tremila metri di granito, ma le Alpi non crollano, sono ferme da centinaia di milioni di anni. Qui è altra musica: avanzi in una massa inquieta, franosa, una montagna giovane che ti spiazza ogni trenta metri. Il paragone giurassico non basta più, la visione diventa anatomica. Arranchi come Pinocchio nella trachea di una balena che rumina, sfiata, rutta, nuota nel mare. Il vero viaggio al centro della Terra è qui, nella spina dorsale della Penisola.
Pulsare di pompe, colpi lugubri. In fondo, un soppalco che avanza, come una chiglia di nave rovesciata. Occupa tutta la volta, sfiata vapore col ritmo di uno stantuffo. E’ la macchina che rifinisce la galleria, sputa cemento ad aria compressa e lo liscia alla perfezione. Qui è caduto l’ultimo sipario di roccia, pochi giorni fa, con soli due millimetri di scarto tra i due fronti di scavo. L’onore dell’ultimo, storico colpo di piccone se lo sono conquistato gli anziani. Quelli sul lato Nord, guidati dal "capo-imbocco" Giuseppe Avigliano, il mago degli esplosivi, un lucano che non dorme mai. "Qui passi la dogana pontificia" scherzano i tecnici. "Oltre hai già le truppe dell’altro cantiere".
Ora la talpa procede in un calcare stabile; è il tratto della massima velocità di scavo, oltre sette metri al giorno. "Guardi com’è bella" dice della sua creatura Angelo Papaleo, da Lauria, Basilicata. Ha 60 anni, e in pensione non ci vuole andare. "Questi anziani sono il patrimonio dell’impresa – spiega Cardu – passano ai giovani il gusto del lavoro fatto bene". Maestri come Ettore Ghilotti, valtellinese, detto "il Signore dei diaframmi". O Giovanni Mirabelli, sindacalista guascone, con l’elmetto di tre quarti, provincia di Crotone, targa "Kr", il mitico "fattore Kappa". Tifa per il tunnel della Val di Susa, contestato dai piemontesi, che s’ha assolutamente da fare, "perché altrimenti il futuro è grigio".
Il primo tunnel finisce con un’imboccatura a becco di flauto, un’enorme ancia di cemento che si apre sui prati del Mugello. Il paragone è azzeccato, la galleria è davvero uno strumento musicale, un oboe segnato da aperture, cannule, finestre, zigrinature e by-pass, capace di sfiatare note e timbri di ogni tipo. Cornetta, fagotto, trombone.
La linea diventa una palla di fucile, taglia all’aperto l’onda lunga delle colline, supera – su tre livelli diversi – la Statale, il ponte sul Sieve e la ferrovia faentina col trenino fiammante detto "Minuetto" che morde il pendio verso il crinale appenninico. Fai appena in tempo a vedere che il Mugello s’è rifatto il lifting con i soldi dell’Alta Velocità: prati come campi di golf, strade, torrenti a regime, piste ciclabili. Subito si torna a quota periscopio, la talpa buca la collina sotto l’autodromo, svela un lavoro eseguito al cardiopalmo per non interferire col calendario-gare, tra una vittoria di Valentino Rossi e un collaudo di Schumacher.
Galleria di valico, detta Firenzuola: un nome dolce che inganna. Dentro, la scenografia è da Spielberg. Argille con gas e acqua in pressione. Miasmi, puzza di zolfo, umidità, luci gialle e verdi, concrezioni rosse di ferro e manganese. Un’andatura claustrofobica, in assetto antideflagrante, con le macchine a componenti elettriche sigillate per evitare esplosioni. È qui, sotto la Linea Gotica, che si sono esplorate le ultime frontiere della sicurezza. Una scommessa vinta: a perforazione ultimata, il tunnel Firenze-Bologna è il meno sinistrato del mondo. Tre morti su 78 chilometri, nessuno per motivi legati allo scavo. Dieci anni fa la mortalità era tripla.
La ciurma diventa internazionale. Ecco Setahel Larbé, marocchino di Agadir, che cerca i gas residui con un rilevatore. O Julian Brolli, albanese, che comanda una squadra impermeabilizzazione. Intanto l’acqua ha cambiato direzione nel canale di scolo, ora scende verso la Romagna. L’aria, invece, sale con forza. Si viaggia controvento, segno che c’è una finestra, in fondo. Nei pressi dell’uscita, la galleria raddoppia di diametro, passa i 23 metri, diventa una delle più larghe del mondo. È il camerone centrale, lo spiazzo di manovra dove la linea doppia diventa quadrupla. In fondo, la luce.
"È sempre bello quando si esce" respira il capocantiere Enzo Biroli, alla guida della sua Land Rover. "Faccio questo mestiere da anni e ancora mi fa effetto". È un varco di trecento metri appena, nebbioso, incastrato tra frane e creste arcigne, ma è quanto basta a cancellare il buio. L’ingegner Francesco Poma, direttore di questa parte dei lavori, aspetta sul piazzale sotto una scarpata. Ha trent’anni, pare Rivera quando lo chiamavano "Abatino". All’inizio degli scavi era ancora all’università. Cita Dante, ci avverte che questo è "il bel paese che il Santerno bagna, che parla tosco in terra di Romagna".
Ancora un tunnel, poi il diaframma più critico: il torrente Diaterna, una gola franosa incastrata fra tre passi: Giogo, Futa e Raticosa. Il viadotto va avanti con movimenti di velluto su martinetti idraulici, verso la galleria successiva che sbuca poco oltre, sotto una montagna che smotta, scende a valle con tutta la sua foresta. Il terreno è disseminato di sensori ottici e inclinometri, il monitoraggio è millimetrico. Un posto senza luce, d’inverno la temperatura va anche a meno venti. Un terreno per duri, come Marco Venturini, da Moggio Udinese. "Uno – dice l’ingegnere – che potrebbe fare una galleria da solo, perché sa fare tutti i mestieri". È lui il Caronte che ci traghetta oltre questo dedalo di acque e malebolge.
Scende la sera, foschia, silenzio nei boschi, lontano luccica San Pellegrino, quattro case e una chiesa romanica sullo stradone. Scendiamo per una strada bianca sul fiume, risaliamo oltre il ponte che non c’è. Hanno rifatto le fondamenta della montagna, con enormi pilastri piantati fino a venti metri di profondità. Poi di nuovo in galleria verso Bologna, in formazioni instabili, umide, piene di microrganismi, bitumi, oli minerali. Avanti fino all’ultimo punto critico, la faglia del Monte Bìbele, dove la montagna continuava a richiudersi dopo lo scavo, venti centimetri l’ora. Un effetto-tenaglia visibile a occhio nudo.
Finalmente, la montagna si rilassa, la stratificazione diventa orizzontale. Calcari, sabbie cementate, sedimenti. La talpa è uscita dal femore dell’Appennino ed entra nei fondali dell’antico mare padano, quelli che l’Agip bucò nel dopoguerra, in cerca di idrocarburi. Fuori è notte, ma non lo sai, perché si lavora 24 ore su ventiquattro. Dentro è la vera devolution: nessuno bara, ogni uomo si assume la sua responsabilità, ogni cantiere ha la sua autonomia di mezzi, magazzini, impianti, uffici, mense, infermerie, dormitori. Non c’è un unico monarca qua sotto.
Il viaggio è finito, l’auto riemerge in un piazzale illuminato accanto alla Statale 65. Odore padano di camion e letame, ultime colline lunghe, Bologna Centrale a meno di dieci chilometri. "Vengono da tutto il mondo a vederci – dice il direttore generale dei lavori, Pietro Marcheselli, ditta Cavet – qui sono nati nuovi criteri di scavi, di sicurezza e di tutela ambientale. Nulla dopo quest’esperienza sarà come prima. Abbiamo fatto scuola, ma l’Italia non lo sa. Se quest’opera l’avessero fatta gli inglesi, si sarebbero fatti pubblicità per anni".
(7 novembre 2005)