Sospetti sul tunnel della discordia

 

di Gian Antonio Stella

Corriere della Sera, 8 dicembre 2005

 

 

Aperta ieri con cinque anni di ritardo la prima delle «sue» due gallerie sull’Autosole di Nazzano, che doveva esser pronta nell’ottobre 2000 per il Giubileo, il ministro Pietro Lunardi ha accelerato nell’alta velocità prediletta: quella di parola. E facendo invelenire Beppe Pisanu, che ha subito fatto sapere d’essere «fortemente irritato» con lui, ha liquidato lo scontro sociale, politico e culturale sulla Tav in Val di Susa nello stile di un colonnello sudamericano: «È ormai un problema di ordine pubblico, non riguarda il mio dicastero».

 

 

Parole incaute in bocca a ogni ministro d’un governo occidentale che sia conscio delle difficoltà di ammanettare, insieme coi no-global, anarchici e attaccabrighe, anche sindaci e commercianti, artigiani e casalinghe. Ma ancora di più in bocca a lui, invischiato nella controversa faccenda non solo come responsabile delle Infrastrutture ma anche come ingegnere, fondatore, progettista e uomo simbolo della «Rocksoil», la maggiore delle società italiane specializzate nei tunnel, che come è noto ha ceduto a moglie e figli per aggirare la grana del conflitto d’interessi. Proprio perché, come ha ricordato Carlo Azeglio Ciampi, non è ammissibile che i campanilismi di una contrada, gli umori dei «signornò» o le beghe di bottega blocchino grandi opere di interesse collettivo, queste opere devono essere progettate, spiegate, appaltate e fatte nella massima trasparenza. Senza il minimo sospetto di qualche dettaglio occultato e men che meno di qualche interesse personale. Ed è qui che i conti lunardiani non tornano.

 

Passi l’abolizione, decisa appena dopo aver giurato in Quirinale, del divieto firmato dal predecessore Nerio Nesi (in linea con le scelte europee) di costruire ancora tunnel a una canna e due sensi di marcia, divieto che toccava anche un suo progetto abolito (e da lui ripristinato) in Val Trompia. Passi l’assunzione come capo della segreteria di Giuseppe Calcerano, cioè del dirigente delle Autostrade che, come denunciò Alessandro Sortino de «Le Iene», era addetto alla supervisione di quelle gallerie di Nazzano il cui progetto firmato nel 1997 da Lunardi nelle vesti di ingegnere era stato rifatto dopo la scoperta di una falda che, stando alla bacchettata, «si sarebbe dovuta prevedere nella fase progettuale». Passi l’appalto, smascherato da MF, ottenuto dall’azienda di famiglia (nonostante avesse giurato davanti alle telecamere: «I miei figli lavoreranno solo all’estero») per «la progettazione esecutiva e costruttiva registrate nel bilancio 2004 di una galleria del collegamento ferroviario Milano-Malpensa», collegamento gestito dalle Ferrovie Nord, controllate dalla Regione Lombardia. Fin qui siamo dentro il cattivo gusto, l’indifferenza al senso di opportunità, la violazione di quei codici etici, scritti o non scritti, che spingono i cittadini a rispettare uno Stato serio.

 

In Val di Susa c’è di più. I pareri sulla bontà o meno della scelta di bucar le montagne esattamente lì, come è noto, sono discordi. Succede, che gli specialisti litighino dando più peso a questo o a quel punto. E succede spesso. Da una parte all’altra del pianeta. Nel caso specifico, però, c’è una storia che val la pena di raccontare. Quella di due tunnel paralleli per l’acqua, 4,75 metri di diametro esterno e una decina di chilometri di lunghezza, iniziati una decina di anni fa, proprio in quella zona, per conto dell’Aem, l’azienda municipale di Torino. Nel patto dei costruttori erano in quattro: l’Astaldi (capofila), la francese Eiffage, un’impresa del Mezzogiorno poi finita nei guai finanziari, e la Selmer (Nocon), una grossa società norvegese con diecimila dipendenti (allora: oggi ha capitali svedesi e i dipendenti sono saliti a quindicimila) che lavora spesso in coppia con la Norconsult, specializzata in gallerie.

 

Un patto destinato a durare poco: a metà galleria, la Selmer decise infatti di sfilarsi. Ed è qui che si affacciano un mucchio di domande. È vero che la società scandinava prese la decisione di uscire dopo l’ennesimo incidente, che aveva visto una frana seppellire una costosissima talpa americana di marca Robbins? È vero che i norvegesi si lamentarono degli studi che accompagnavano il progetto dicendo che i calcoli geologici erano inesatti? È vero che la montagna venne allora definita «una gran brutta montagna» segnata da fenomeni carsici, fiumi sotterranei, temperature qua e là molto alte e presenza di amianto? È vero che la faccenda finì in mano agli avvocati finché la Selmer-Nocon non se ne andò dopo avere ottenuto una buonuscita? Domande non secondarie. Perché, se fosse vero («Mai saputo niente: a noi dissero solo che c’erano stati dei problemini», dice il sindaco di Venaus, Nilo Durbiano), le perplessità di chi si oppone non sarebbero ancor più «solo un problema di ordine pubblico».

 

Tanto più che, a leggere le cronache di questi giorni, anche la francese Eiffage si ritirò per «difficoltà» nel 2004 da un altro cantiere, sul versante francese. Quello che prevedeva la costruzione di una galleria di 2 chilometri che doveva servire a saggiare le condizioni di scavo. Galleria che vedeva impegnata, fra gli altri, anche la Rocksoil di Pietro Lunardi. La quale, come spiegava una dettagliata interrogazione dei senatori verdi Anna Donati e Giampaolo Zancan sulla base del bilancio 2002, era stata incaricata della progettazione del tunnel «attraverso una cascata di sub-incarichi e consulenze». La committente era la società francese Ltf, controllata alla pari dalla francese Rff e dall’italiana Rfi, che gestiscono le reti ferroviarie francese e italiana. Col risultato che a pagare una parte dei lavori, stando al cartello filmato ancora da Alessandro Sortino, c’erano il governo italiano e le nostre Ferrovie dello Stato.


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